Cos’è la Motion Graphic Storytelling

Quando le storie sono forme in movimento.

Tutti noi siamo storyteller.

Come amici per raccontare la nostra giornata, come venditori per spiegare il nostro prodotto, come innamorati per essere ricambiati. Le storie ci circondano e ci aiutano da sempre.

L’uomo non racconta solo storie attraverso parole o scrittura, seduto intorno al fuoco o sorseggiando birre al bancone. Utilizza i sogni, suona canzoni, inventa barzellette.

Qualsiasi sia il medium, sembra sempre la volta buona per raccontare una storia.

In quest’epoca poi, dove tutto sembra essere progettato per essere visto rispetto a essere letto o ascoltato, le storie passano per forza sotto i nostri occhi, per informare, raccontare o sedurre.

Io, per esempio, mi sto occupando di motion graphic.

A differenza degli altri medium riesce a trasmettere contenuti complessi in poco tempo; qualcosa in questo ordine mi rende felice. Eppure, avendo una forte componente astratta, spesso viene da chiedersi: come fa a raccontare una storia? Come fa l’astrazione a esprimere, per esempio, il dramma, o l’epica, o il romanticismo?

Ecco, mi sono messo nei guai da solo. Ho cercato su Google e chi ne parla consiglia – certo a ragione – di capire prima a chi si stia parlando, poi del concept, dello storyboard, del visual design senza scordarsi del sonoro e tutto il resto.

Nella pratica funziona così, eppure qualcosa di più profondo viene tralasciato. Almeno per il piccolo Don Chisciotte che in me che si sente poco soddisfatto.

In questo articolo, tenterò di dargli spazio.

Storyteller è chi guarda

dots

 
 Jonathan Gottschall, nel suo L’istinto di narrare, lo chiama rapimento geometrico. Riguarda la nostra mente – che lui definisce narrante – nella sua qualità di riconoscere disegni che ci aiutano a percepire schemi famigliari nell’ambiente che ci circonda.

Succede così che guardiamo le stelle e ci viene la brillante idea di unire i punti per formare costellazioni, intuiamo frecce nelle muffe sui soffitti, riconosciamo visi umani tra le nuvole di fumo.

visual-storytelling-Trump

 Traduciamo il mondo grazie al nostro cervello. Secondo gli scienziati lavora attraverso schemi significativi.

Così, quando ci vengono offerte delle informazioni, chiunque di noi è ben felice di elaborarle al fine di estrarne uno schema di eventi più ampio, una possibile trama. Una notizia casuale, così, è difficile da tenere a bada. Andrà alla ricerca di collegamenti, di un contesto, di spiegazioni, dei suoi perché? e degli e quindi?

La nostra mente è curiosa e ha bisogno di chiudere il cerchio per comprendere quel pezzo di mondo. Così gli schemi significativi si traducono in storie.

Ad esempio, quante domande ti vengono in mente guardando questa GIF? Che intenzioni hanno quei due? E’ l’uomo che ipnotizza il gatto? O è il gatto che ipnotizza l’uomo? Ma soprattutto, perché? E quel gatto… cosa pensa di fare?

La nostra mente narrante ci inganna, e noi ce ne rendiamo conto benissimo. Ma questo contrasto ci tiene incollati lo stesso e ci sorprende facendoci sorridere. Sappiamo – o almeno sospettiamo – che le due clip siano state montate ad hoc, eppure la nostra mente le unisce. Sperimenta schemi interpretativi che, nella loro assurdità, risultano ludici. Un’attrazione ipnotica, per certi versi, un effetto ottico. C’è una spiegazione? Tutta colpa dell’effetto Kulesov.

L’effetto KULESOV

L’effetto Kulesov è un esperimento di un regista sovietico, Lev Vladimirovič Kulešov, nei primi anni venti. Insegnante di Pudovkin e Ejzenstejn (il regista, sceneggiatore e montatore del La corazzata Potëmkin), voleva dimostrare l’importanza del montaggio come portatore di senso; finì per impressionare i suoi allievi.

Il filmato originario è andato perduto ma, attraverso varie testimonianze – tra cui quella di Pudovkin stesso – sono nate riproduzioni.

Consiste in un primo piano di un uomo senza particolari espressioni che viene associato a tre differenti clip attraverso il montaggio: una minestra, una bara e una donna stesa su un divano. La stessa clip del viso montata prima di tre soggetti differenti. Kulesov mise il video montato davanti a un gruppo di persone ignare del meccanismo. Tutti i presenti descrissero l’espressione dell’uomo in maniera differente a seconda che fosse associata alla minestra, per esempio, o alla bara. Ai loro occhi, risultava infatti un’espressione affamata davanti alla minestra, triste con la bara, eccitato in presenza della donna distesa su un divano. Ma è esattamente lo stesso sguardo che il loro cervello aveva interpretato in maniera differente. Si dice che questi spettatori lodarono persino le doti interpretative dell’attore protagonista per le sfumature che riusciva a raggiungere in ciascuna delle tre scene.

Questo succede perché proiettiamo le nostre emozioni sul viso dell’attore identificandoci con lui e gran parte del lavoro emotivo lo viviamo al posto suo.

Qualcuno dirà: ma finché sono esseri viventi è normale che empatizzo con loro! Cosa c’entra la motion graphic con tutto questo?

C’entra, puoi dirlo forte.

L’ESPERIMENTO di Heider e Simmel

Una ventina di anni dopo, nel 1944, due psicologi, Fritz Heider e Marianne Simmel, trovano un modo definitivo per dimostrarlo. Realizzarono una semplice animazione di novanta secondi in cui semplici forme geometriche si muovono fuori e dentro un rettangolo aperto. Dando via all’esperimento, i due psicologi mostrarono le immagini ai soggetti della ricerca assegnandoli un compito semplice: «descrivete ciò che vedete». Ma solo 3 persone su 144 hanno dato effettivamente una risposta ragionevole e cioè che erano figure geometriche in movimento su uno schermo. Tutti gli altri hanno dato un’interpretazione narrativa, per di più ricca di dettagli. Chi ci vedeva liti all’ultimo sangue, danze di corteggiamento, porte che si aprivano e sbattevano. Io, per esempio, ho visto dei cani.

 
Così anche nel movimento delle forme geometriche più semplici proiettiamo le nostre emozioni ed elaboriamo delle storie.

Anche i più piccoli elementi di motion graphic, dentro la cornice di uno schermo, creano significato grazie al loro movimento. Smuovono – almeno finché non vengono traditi – una sensazione legata a un ricordo, a un loro modo di stare nello spazio, a degli schemi significati, appunto, che la nostra memoria si è costruita nel tempo. Così un grande triangolo nero su uno sfondo bianco può apparirci una montagna in controluce grazie alla nostra memoria visiva.

 
 Probabilmente aveva ragione Ollie Johnston della Disney quando diceva:

“Non ti è richiesto di animare i disegni. Ti è chiesto di animare i sentimenti”

Il progetto Little Metric Stories

Così, preso da tutta questa ricerca, ho provato a fare qualcosa di simile a Heider e Simmel, cercando di rappresentare altre narrazioni per minimi termini. Tutto è partito come un allenamento fino a che non mi sono trovato ad averne una serie, episodi di pochi secondi che girano all’infinito in loop. Così ho dovuto trovargli un nome e ho scelto Little Metric Stories.

Eccone qui alcune, ne trovate altre sul mio profilo Instagram.

Nascono come metafore, allegorie e prendono forme essenziali che, grazie agli occhi di chi guarda, si traducono in storie.

Ora che il mio Don Chisciotte è un po’ più soddisfatto può andare a dormire.

Buon motion graphic storytelling a tutti!


×