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Come ha fatto l’ultima campagna di Burger King a stracciare gli avversari

In futuro tutti mangeranno un Whopper per 15 minuti.

O almeno per 45 secondi.

Dai tempi in cui Bud Spencer e Terence Hill divoravano i fagioli in “Lo Chiamavano Trinità”, ho sempre provato una certa attrazione per le scene dei in cui si mangia sul serio.

Saranno i neuroni a specchio, ma diciamo che stimola un certo appetito.

eat in the screen

“Devi portarci da mangiare. E anche alla svelta”

Credevo fosse la fame atavica il mio punto debole. Poi ho visto Andy Warhol mangiare un Whopper in una campagna pubblicitaria trasmessa durante l’ultimo Super Bowl e ho cambiato idea.

La campagna #EatLikeAndy

Se non l’avete vista, Burger King, aiutato dall’agenzia David Miami, è riuscito in una campagna metanarrativa veramente profittevole (come vedremo), ma cos’è successo?

In principio, in vista del Super Bowl dello scorso febbraio, ha ottenuto i diritti per utilizzare uno spezzone in cui viene ripreso Warhol mentre mangia un hamburger. La scena completa è stata girata originariamente per il film “66 Scenes from America” che fu diretto da JØrgen Leth nel 1982 e non mostra molto di più rispetto a quello che vediamo nello spot: il nativo di Pittsburgh si siede a un tavolo e mangia un hamburger con un pizzico di ketchup. Tutto qui.

Ecco lo spot di 45 sec. (vi risparmi il filmato originario di 5 min, se no scoppia la testa anche a voi, ma lo potete vedere qui)

La fortuna aiuta gli audaci

Burger King dovrà ringraziare anche chi, prima delle riprese, andò a procurare il/i panini da presentare al tavolo di Andy. Infatti, in “Andy Warhol Eating a Hamburger” sotto i denti dell’artista capita proprio il classico Whopper di Burger King. Ma non era quello che lui aveva indicato: come conferma JØrgen Leth in un intervista di qualche anno dopo, Warhol, inizialmente, avrebbe voluto usare McDonald’s perché ne preferiva il design del packaging.

Breve analisi

Vedere mangiare Andy Warhol non stimola molto l’appetito.

Ma mi sono accorto che gran parte dell’eccitazione provata deriva dall’attesa di vedere che cosa farà Warhol (oltre al fatidico: è lui? non è lui? Certo che è lui) prima, durante e dopo che mangia. Scorrono i secondi, i minuti, e siamo ancora lì a studiarlo masticare: colpo di scena quando – con un certo imbarazzo – sussurra “non esce” mentre cerca di mettere il Ketchup sul lato interno dell’involucro (e, giuro, non direttamente sul panino) e forte suspense quando prende la decisione di scartare una fetta di pane, piegare l’altra e continuare a mangiare. Infine appallottola i residui di carta dentro lo scatolame e poi nella busta.

Anche se, a dirla tutta, un po’ di fame mi è venuta lo stesso, mi accorgo di essere stato attratto, più che altro, dall’immagine di Warhol seduto mani conserte con un hamburger ancora fumante che sgusciava giù nelle profondità del suo stomaco.

E, a quanto sembra, non sono stato il solo. Durante il silenzio di quello spot, gli spettatori americani hanno avuto simili interrogativi, si sono preparati domande e impressioni per il post partita che in parte hanno condiviso sui social. Alcuni hanno chiesto “chi è?”, altri hanno bevuto una birra ridendoci su, altri ancora hanno cercato maggiori notizie su Google. Sicuramente il Super Bowl è un palcoscenico d’eccellenza per scatenare certe reazioni, ma ciò non toglie che la trovata metanarrativa – di nuovo – ha smosso qualcosa nel mondo pubblicitario.


Formula metanarrativa

La pubblicità spesso diventa un riflesso sia del passato che del futuro. Il Super Bowl di quest’anno, gli spot pubblicitari erano a cavallo tra il ricordare la grandezza di ieri e le possibilità del domani.

Come Coca Cola che, per coincidenza galattica, nell’annuncio pre-partita dal nome “A Coke is a Coke“, allude a una citazione proprio di Warhol (a sua volta un riferimento a Gertrude Stein). Come per dire “una Coca-Cola è una Coca-Cola” e nessuna somma di denaro al mondo può donarti una Coca-Cola migliore di quella del tuo vicino.

Anche Andy, uno di noi. Lui, uno dei padri fondatori della pop art si siede davanti a una scatola contenente un hamburger (come tutti noi), fa fatica a rovesciare il ketchup dalla bottiglia (come capita a tutti) e immerge il suo hamburger nella salsa (proprio come un bambino). Lo stesso ragazzo che ha dipinto una lattina di passata di pomodoro nutrendo l’idea che tutto e tutto possano essere arte. Anche un annuncio. In qualche modo ci ha visto molto lungo e in una modalità che forse nemmeno lui poteva aspettarsi.

Altri esempi di metanarrazione nel brand storytelling? Leggi qui (e vai al secondo punto dell’articolo!).


Ecco i risultati di #EatLikeAndy

Qualche giorno fa, il CMO globale di Burger King, Fernando Machado, ha scritto un post sul blog di LinkedIn evidenziando i punti del successo della campagna, analizzando i dati sia nell’immediato che nel lungo periodo.

Quattro i punti principali:

  • 1. Andy Warhol ha più fan digitali di quello che si possa pensare

Su Instagram è menzionato il quadruplo rispetto a Sarah Jessica Parker, Melissa McCarthy e Steve Carrel.

  • 2. Anche non conoscerlo porta i suoi frutti (e che frutti)

Il fatto che non tutti conoscessero Warhol ha provocato da subito molte ricerche su Google e domande sui social traducendosi in una miriade di conversioni.

Come si può notare dal grafico, in quei giorni c’è stato un enorme picco nella ricerca di “Burger King”. Questa ricerca è stata decisamente più alta rispetto a Bud Light e Pepsi. E la ricerca indiretta su “Andy Warhol” ha finito per sminuire, infine, tutto il resto.

  • 3. Reputazione e impressions positive

Machado sottolinea come, in termini di contatti guadagnati, la campagna ha raggiunto più di 3 miliardi di impressions sui media globali. Questo equivale a 25 – 30 milioni di dollari di entrate. La maggior parte delle impressions sono state neutrali / positive, il che ha anche contribuito a trasformare il sentimento di confusione iniziale in una boomerang positivo.

L’obiettivo principale di questa campagna era spostare la reputazione del marchio.
Per analizzare l’impatto della campagna pubblicitaria sulla propria immagine, Burger King ha incaricato YouGov di sondare 1.200 americani prima e dopo l’annuncio del Super Bowl. Machado afferma che le misure hanno mostrato un forte miglioramento su tutta la linea, specialmente tra quelli di età compresa tra i 18 ei 34 anni. Ecco alcune statistiche specifiche che ha condiviso:

Ne hai parlato nelle scorse due settimane? + 49,0% (+ 51,1% tra i 18-34 anni)

Probabilità di acquisto da Burger King: + 8,3% (piatto tra 18-34 anni)

Cosiderazione di Burger King come un Brand “cool”: + 189,4% (+ 167,3% tra i 18-34 anni)

Sentirsi bene con un prodotto Burger King tra le mani: + 78,6% (+ 96% tra i 18-34 anni)

Autenticità del Brand: + 114,2% (+ 153,1% tra i 18-34 anni)

  • 4. #EatLikeAndy a domicilio

E, alla fine, Burger King ha registrato un aumento di circa il 38% delle vendite a domicilio rispetto ai 30 giorni precedenti al lancio della campagna.

Detto questo anch’io continuo a preferire la matriciana o quei bei maccheroni (spaghetti?) che mangiava Alberto Sordi in Un Americano a Roma (1954). Eppure il Super Bowl si è concluso da un po’ e, qui e là, si continua a parlare di questo spot. Forse il fascino di Andy Warhol continua a maturare dentro di noi e, sicuramente, l’esempio di Burger King può servire come stimolo per i Brand che scelgono di comunicarsi attraverso un visual storytelling poco convenzionale.

Quindi… idee per la prossima campagna Barilla ne abbiamo?

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